INSURREZIONALI: EMINESCU, LEOPARDI, PASCOLI

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Ritornare su argomenti, tematiche, interpretazioni che la critica emineschiana ha ripetutamente studiato e analizzato, può apparire esercizio inutile se non si ha la convinzione di poter aggiungere qualcosa a ciò che è stato già espresso dai numerosi esegeti dell’opera di Eminescu.

Scrivendo da italiano, credo che il compito più importante che grava su chi voglia segnare un avanzamento negli studi e nella conoscenza di Eminescu sia quello di una nuova traduzione delle sue poesie. Eminescu aspetta ancora un buon traduttore nella lingua poetica di oggi; con tutte le limitazioni che la traduzione in un’altra lingua comporta, tradurre si deve, perciò auspichiamo che le pregevoli, ma ormai superate traduzioni di Ramiro Ortiz, di Umberto Cianciolo, di Mario Ruffini, siano rimpiazzate da versioni rese in un italiano più moderno e consono all’attuale sentire poetico.

Lodevoli, da questo punto di vista, ci sono parse le più recenti traduzioni di Rosa Del Conte, di Marco Cugno, di Geo Vasile e di Sauro Albisani; tuttavia, a nostro parere è possibile un ulteriore avvicinamento alla bellezza, alla musicalità, e di conseguenza alla fruibilità del verso emineschiano.

Altra operazione utile è quella entrare negli spazi dove l’esegesi ha svolto il suo compito in modo talmente contrastante da arrivare a confondere chi si accosta all’opera di un autore. Succede che la critica letteraria presenti spesso, su uno stesso tema, uno spettro di interpretazioni talmente ampio da sconcertare chi spera di trovare una risposta chiara ai dubbi sul senso di una poesia, sulla cifra spirituale dell’autore, il suo background socio-culturale, i letterati che più lo hanno influenzato.

Eminescu non sfugge a questa regola. Se innegabili, ed evidenziati in modo ormai unanime dalla critica, rimangono alcuni topoi dell’opera di Eminescu, altre questioni relative alla sua produzione poetica continuano ad essere oggetto di discussioni, interpretazioni, commenti di vario e spesso opposto tenore.

In questo scritto, mi limiterò ad una brevissima incursione (senza alcuna pretesa esegetica) su due specifici aspetti dell’opera emineschiana: l’influenza che su di essa ha avuto il pensiero di Schopenhauer e le affinità e differenze fra Eminescu e i poeti italiani Leopardi e Pascoli.

Infine, accennerò ad un sentimento comune ai tre poeti – forse non ancora messo in luce nella dovuta importanza –  che li avvicina a dispetto delle diverse personalità di ognuno.

Venendo alla prima questione, l’influenza di Schopenhauer sul poeta romeno è un problema ermeneutico dibattuto sin dai primi studi critici dedicati ad Eminescu. Dall’iniziale, pressoché concorde riconoscimento dell’impronta del filosofo tedesco, si è arrivati, in qualche caso, alla sua negazione. Fra le posizioni riconoscenti un netto influsso di Schopenhauer, vogliamo ricordare quella di Basil Munteanu nell’ormai classica Storia della Letteratura Romena Moderna (1947). Ecco il pensiero dello studioso: “Poiché il mondo è fatto di apparenze e la natura di queste apparenze è legata alla natura del nostro spirito, si può dire senz’altro che esse ne sono la proiezione allucinatoria e che noi viviamo fra i fantasmi; ossia, per dirla con Schopenhauer, che ‘il mondo e la vita sono un sogno’. Questa sentenza, che il romanticismo europeo ha cantato su tutti i toni, presenta nel nostro poeta non già il carattere di un gratuito luogo comune, ma l’accento tragico di una convinzione fortemente pensata”.

In una via di mezzo si colloca Rosa Del Conte, autrice della monumentale monografia Eminescu o dell’Assoluto, opera del 1963 che rimane un testo imprescindibile per la comprensione del pensiero e dell’opera del genio romeno. In questo e in altri scritti, la Del Conte pone l’accento sull’elaborazione personale cui Eminescu avrebbe sottoposto il pensiero di Kant, Hegel e Schopenhauer. La tesi centrale della studiosa italiana è che la weltanschauung del poeta romeno non si sia formata solo sulla filosofia occidentale (con influenze della Grecia classica e orientali), ma anche e soprattutto sulla base di una tradizione e di una spiritualità autoctone. In particolare – osserva la Del Conte – Eminescu, a differenza di Schopenhauer, non rimprovera alla vita il dolore, l’illusione, il male, ma “la colpa ontologica di non essere”, il fatto di portare con sé il germe della morte (viermele vremilor roade’n noi).

Prima e dopo la Del Conte e Munteanu, schiere di studiosi hanno sviscerato la questione; quasi tutti mettono in luce le affinità di pensiero fra i due letterati.

Sul fronte opposto, il vertice della distanza fra Schopenhauer ed Eminescu è stato toccato dal rumeno Liviu Rusu. Nel saggio Eminescu şi Schopenhauer, pubblicato da Pentru Literatură nel 1966, lo studioso sottolineava l’importanza delle concezioni filosofiche di Schopenhauer per lo sviluppo del pensiero emineschiano. Negli anni ’80, però, lo stesso Rusu si è mosso in una direzione opposta. L’attenzione del critico si è concentrata sui “livelli di profondità” del rapporto fra il pensiero di Schopenhauer e l’opera di Eminescu, per appurare se si possa davvero parlare di una “contaminazione” dell’uno sull’altro. In conclusione, Rusu riconosce in Schopenhauer un mero ispiratore della filosofia di Eminescu; l’influsso del pensatore tedesco sarebbe stato soprattutto teorico, e non avrebbe avuto riflessi concreti nell’opera del poeta.

Sul versante italiano, limitandoci agli approfondimenti più recenti, il saggio di Silvia Mattesini Profilo di un genio desolato (1991), si colloca fra quelli che riscontrano dei sicuri legami tra la filosofia di Schopenhauer e la poetica di Eminescu.

Nel 2000 è stata pubblicata da Sauro Albisani l’antologia poetica Il Genio della morte, che reca la traduzione di 26 liriche di Eminescu, più le 5 Epistole. Nella prefazione, trattando dei rapporti tra Schopenhauer, Leopardi ed Eminescu, l’autore ravvisa tra di essi “un punto di tangenza sostanzialmente dissimile, in quanto nel caso del poeta romeno si tratta almeno in parte di un rapporto di filiazione culturale”. Infatti, prosegue Albisani, “ben altrimenti radicale è l’assunzione fatta dall’autore di Dorința (Brama) della visione del mondo schopenhaueriana: alla solidarietà creaturale che la ginestra insegna al poeta di Recanati dalle plumbee pendici del Vesuvio sterminatore, estrema ipostasi della Natura, il poeta di Ipoteşti oppone il dor, etimo quasi intraducibile, più cupo e più sinfonico della nostalgia; o, se vogliamo, la più paradossale delle nostalgie: la nostalgia della morte”.

A nostro modesto parere, l’influenza di Schopenhauer su Eminescu appare incontestabile, e si estende oltre il mero ambito teorico. Nell’Epistola I, che la Del Conte considera “di sicura ispirazione filosofica”, la concezione schopenhaueriana dell’esistenza è di tutta evidenza. Descrivendo la luna:

Quella luce fa sorger dalla notte del ricordo tutta un’eternità / di dolori, che noi sentiamo come in sogno, uno per uno.

Più avanti, riferendosi al destino degli uomini:
Benché sorti differenti trasser fuori dell’urna del Destino,
egualmente li governa la tua luce e il genio della Morte,
poi che schiavi ovver potenti, genii o idioti
trascinan tutti la medesima catena di dolore.

Come si fa a negare la presenza di Schopenhauer in versi come questi? Possiamo situarci a un qualunque “livello di profondità”, ma risulta francamente impossibile non rinvenirvi due cardini del pensiero del filosofo tedesco. Il primo: la vita è dolore, e la storia è cieco caso. Il secondo, non meno palese: il mondo è rappresentazione e pertanto fenomeno, per cui non è possibile una vera distinzione tra il sogno e la realtà; tutto ciò che siamo in grado di conoscere resta irrimediabilmente sul piano fenomenico, che è illusione, è il velo di Maya.

Nella poesia Mortua est!  I due motivi schopenhaueriani risaltano nella stessa quartina:

Essere? Follia triste e vana;
l’orecchio ti mente e l’occhio ti inganna;
ciò che un secolo dice, un altro lo nega.
Piuttosto che un sogno insipido, meglio il nulla!

Solo un altro esempio, anch’esso di una chiarezza innegabile; sono i versi conclusivi di Imperatore e proletario:

E quando ormai ti è noto
che il nostro sogno ha fine con la morte,
che ogni cosa dopo il viver nostro invariata rimane,
nonostante la nostra volontà di migliorare il mondo,
allora, stanco del perpetuo moto,
ti seduce un pensiero: della perenne morte
non è che un sogno la vita del mondo.

E’ noto che per Schopenhauer un primo, possibile rimedio al dolore e al tedio della vità è costituito dall’arte. Tuttavia, la consolazione che possiamo trarre dal fenomeno artistico è qualcosa di momentaneo; inoltre, precisa Schopenhauer, “man mano che la conoscenza diviene più distinta e che la coscienza si eleva, cresce anche il tormento, che raggiunge nell’uomo il grado più alto, e tanto più alto, quanto più l’uomo è intelligente; l’uomo di genio è quello che soffre di più” (Il mondo come volontà e rappresentazione, libro IV).

E’ una conclusione cui giunge anche Eminescu, e ancor prima il nostro Giacomo Leopardi. Nello Zibaldone di pensieri leggiamo: “Hanno questo di proprio le opere di genio, che, quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia, ad un animo grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggiamento della vita o nelle più acerbe e mortifere disgrazie (…) servono sempre di consolazione, riaccendono l’entusiasmo; e non trattando né rappresentando altro che la morte, gli rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta”.

Questo brano dello Zibaldone ci introduce nel tema delle affinità e delle differenze fra il poeta di Recanati ed Eminescu. Come ha evidenziato Giuseppe Manitta nel recente e interessante Mihai Eminescu e la ‘Letteratura Italiana’ (2017), “ruolo importante di questa ‘mediazione’ critica proviene proprio da Schopenhauer e dalla teoresi del pessimismo”.

I primi collegamenti tra Leopardi ed Eminescu risalgono alla fine dell’Ottocento, grazie agli studi del filologo e critico letterario Romeo Lovera, che individua una sicura affinità fra i due poeti nel desiderio di morte presente nelle loro opere (ne tratteremo più avanti). Gli approfondimenti critici successivi hanno permesso di delineare meglio le convergenze e le distinzioni fra i due poeti. Limitandoci all’essenziale, tematiche comuni sono costituite dall’elogio della letteratura antica, da una xenofobia motivata dalla dominazione e dall’oppressione straniera, dal divenire cosmico e, appunto, dal sentimento della morte.

Per meglio inquadrare quelle che sono invece le differenze fra i due poeti, è opportuno iniziare da una felice intuizione di Rosa Del Conte, che in un articolo comparso su Belfagor nel lontano 1957 (Vol. 12, n°1), affermava che a separare i due poeti fosse “quel dato irriducibile che ogni uomo porta con sé e che chiamiamo temperamento”. E’ il temperamento, osservava la studiosa, che spiega l’evoluzione in senso contemplativo, razionalista e stoico del pensiero di Leopardi; connesso a tale approdo è il rifiuto del poeta di entrare nel torrente della vita, mai confortata dai ‘cari inganni” e dall’adesione a una fede.

A differenza di Leopardi, la vita e il carattere chiamano Eminescu a una straordinaria ineluttabilità di impegno e di presenza. Il poeta rumeno è un uomo d’azione; svolge cento mestieri, scrive, insegna, partecipa alla vita sociale e politica; crede nell’amore per la donna, per la terra, per la Patria. Eminescu è sì un contemplativo, ma anche profondamente immerso nel reale; a differenza di Leopardi, che si guarda vivere, Eminescu vive.

La Del Conte aveva evidenziato un altro motivo di distanza: “Nella poesia del Leopardi”, scrive la studiosa italiana, “nessun cielo piove pietoso le lacrime della sua sfȃnta bogăţie, come dirà Eminescu, del suo tesoro astrale, sulla pena dell’uomo”; un giudizio, questo, che non condividiamo pienamente. E’ vero che, mentre Eminescu sente come una missione indagare e compenetrarsi con l’anima del popolo, Leopardi indaga soprattutto la sua anima. Ma se Leopardi non ha in gran conto l’umanità, è capace però di comprenderne gli affanni e persino di onorarla, di desiderare di vederla, un giorno, confederata e unita nell’amore. Il pessimismo ‘cosmico’ leopardiano vira nel cosiddetto pessimismo ‘agonistico’ nella Ginestra, un invito alla solidarietà umana e a vivere la vita nonostante i mali e le avversità che comporta.

Ben più autorevolmente di noi, in un articolo pubblicato su La Stampa nel lontano 7 maggio 1929, il filologo e letterato Giulio Bertoni, a proposito della nota pessimistica presente nell’opera di Eminescu, aveva scritto: “Pessimismo amaro, che appare soltanto temperato da un’accorata malinconia, ma non mai addolcito, non mai dimenticato, come avviene nel Leopardi”. Giustamente, Giuseppe Manitta chiosa: “Questo articolo di Bertoni fu il primo a segnalare una differenza sostanziale, in un paragone spesso abusato e, al contempo, sottovalutato: il pessimismo leopardiano che spesso si addolcisce o si annienta, in Eminescu sarebbe più presente e costante”.

Diversa, nei due poeti, è anche la concezione della natura, tema indagatissimo dalla critica. Qui, il pensiero di Leopardi è incontrovertibile: dopo una prima fase in cui fa sua la concezione di Rousseau della natura come madre benigna di tutti i mortali, approderà alla convinzione che la natura è matrigna, una forza indifferente e fatale che non ha altro scopo se non la trasformazione perenne della materia. Fra le migliaia di pagine dedicate all’argomento, scegliamo la concisa, ma pregnante osservazione del grande critico letterario Emilio Cecchi: “Nel Leopardi, la natura è drammatizzata, fatta elemento dialettico: è la fredda, crudele natura che ha volontà e coscienza attive”.

Niente di più lontano da Eminescu; Gino Lupi, in Storia della letteratura romena (1968), scrive che “soltanto la natura rimase amica fedele del poeta sino alla morte”. E Basil Munteanu, nell’opera già citata: “E’ la natura che riserva all’evaso il rifugio migliore di ogni istante: essa è ricca di tutto ciò di cui la società è povera. Cresciuto nel suo seno, il poeta ne fa la culla dell’opera sua”.

Tra le affinità riscontrabili nell’opera di Eminescu e in quella di Leopardi abbiamo inserito il sentimento della morte; in questo tema riscontriamo una sicura corrispondenza fra i due poeti: entrambi concepiscono la morte come fine delle sofferenze umane, come salvezza dal dolore della vita. La visione della morte presente nelle emineschiane Malinconia, Mortua est!, Ode in metro antico, La preghiera di un daco, Un sol desio mi resta, Epistola IV (e diverse altre composizioni) coincide quasi perfettamente col pensiero espresso da Leopardi in quasi tutte le manifestazioni letterarie del suo genio.

Nelle poesie di Eminescu appena citate, il poeta arriva alla conclusione che la pace e il riposo si possono attingere solo morendo, dissolvendosi nella natura stessa. E’ l’esito leopardiano che troviamo in liriche come Amore e Morte, A se stesso, e in molte altre.

Ecco i versi di Leopardi in Amore e Morte:

Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte
ingenerò la sorte.
Cose quaggiù sì belle
altre il mondo non ha, non han le stelle.
Nasce dall’uno il bene,
nasce il piacer maggiore
che per lo mar dell’essere si trova.
L’altra ogni gran dolore,
ogni gran male annulla.
E quelli di A se stesso:
T’acqueta ormai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Ormai disprezza
te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto.

Identico sentire è presente nello Zibaldone di pensieri, per esempio a pag. 292: “… ma la mia anima senza sforzo e senza eroismo si compiaceva naturalmente nell’idea di una insensibilità illimitata e perpetua, di un riposo, di una continua inazione dell’anima e del corpo…”.

Nelle Operette morali, il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie è tutto incentrato sulla dimostrazione che l’attimo della morte è piuttosto fonte di piacere che di dolore:

Ruysch: Dunque che cosa è la morte, se non è dolore?

Morto: piuttosto piacere che altro. (…) Sicché il languore della morte debbe esser più grato secondo che libera l’uomo da maggior patimento.

Nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, il poeta recanatese parla della morte come “il maggior bene dell’uomo”, “il solo rimedio valevole ai nostri mali, la cosa più desiderabile agli uomini, e la migliore”.

E’ la libido moriendi che troviamo nella lettera che chiude l’Epistolario: “I miei patimenti fisici giornalieri e incurabili sono arrivati con l’età ad un grado tale che non possono più crescere; spero che superata finalmente la piccola resistenza che oppone loro il moribondo mio corpo, mi condurranno all’eterno riposo, che invoco caldamente ogni giorno non per egoismo, ma per il rigore delle pene che provo”.

Altro motivo che accomuna Eminescu e Leopardi è costituito dallo sgomento dinanzi all’inesorabile divenire cosmico. Tuttavia, è facile rilevare come, per questo tema, sia Giovanni Pascoli ad avvicinarsi di più alle concezioni emineschiane.

“Tanto in Eminescu che nel Pascoli”, scrive la Del Conte, “il problema del destino dell’uomo è affrontato nei suoi rapporti col cosmo”. Ma la Del Conte va oltre; secondo la studiosa italiana, è lo spirito pascoliano in generale a risultare più congeniale a quello del poeta romeno. In effetti, l’accostamento può farsi iniziare dalla loro biografia e in particolare dalle tristi vicende familiari. Entrambi figli di amministratori di tenute agricole ed entrambi segnati da gravi lutti familiari; tutti e due legati per sempre al luogo natio e alla spensieratezza dell’infanzia, da cui verranno precocemente strappati.

Entrambi sono spiriti contemplativi. E’ noto che sin da adolescente Eminescu amava errare nella natura, spesso senza meta, assorto nella meditazione e nella contemplazione di un mondo che pone all’anima del poeta le domande cui non potrà mai dare una risposta. Quanto a Pascoli, nella prefazione ai Canti di Castelvecchio è egli stesso a ricordare una propensione che fa risalire al comportamento materno: “Io sento che a lei devo la mia abitudine contemplativa, cioè, quel ch’ella sia, la mia attitudine poetica. Non posso dimenticare certe sue silenziose meditazioni in qualche serata, dopo un giorno lungo di faccende, avanti i prati della Torre”.

Ma la più profonda affinità fra i due poeti, osserva la Del Conte, risiede nell’approdo cui conduce la loro meditazione: Basta il raffronto di poche poesie per poter ravvisare nell’opera di entrambi la presenza del mistero che domina la vita dell’uomo e dell’universo, entro la cui dimensione né l’uno né l’altro trovano una consolazione, perché nell’insondabile divenire sorge il problema dell’essere.

Il Pascoli resta in un’angosciosa perplessità quando medita sulla contrapposizione fra la condizione terrena dell’uomo e l’immensità dello spazio celeste. Nella poesia Il bolide, il cielo si presenta come volta stellata; ma lo spazio immenso che contiene i mondi si apre infine intorno e sotto la terra, inghiottendola.

In La vertigine, l’immagine degli abissi cosmici evoca la paura dell’universo sconfinato e ignoto, la presenza degli astri percepiti come mostri favolosi, la sensazione spaventosa della caduta nello spazio, e la disperata ricerca di un appiglio di salvezza.

Allora, io, sempre, io l’una e l’altra mano
getto a una rupe, a un albero, a uno stelo,
a un filo d’erba, per l’orror del vano!
A un nulla, qui, per non cadere in cielo!

 E’ un’angoscia, quella di Pascoli, fisica e metafisica, lo smarrimento di un’anima alla ricerca del Trascendente, di un infinito negato, di un Dio di cui gli spazi silenziosi decretano l’assenza.

La concezione di Eminescu non appare meno pessimistica. Nella sua visione cosmica, i mondi sorgono dal nulla e nel nulla ritornano, come rivela nell’Epistola I; e nella celebre Preghiera, il Daco, che il Demiurgo ha creato immortale, implora con veemente disperazione di ritornare al nulla originario.

C’è una salvezza dal terribile smarrimento suggerito dall’immensità degli spazi cosmici? Il poeta romagnolo, se in alcune poesie non sembra nutrire speranze, e in X Agosto denomina la terra “quest’atomo opaco del Male”, in altre pagine, per esempio nel saggio L’Era Nuova – altissima meditazione sulla morte scritta durante il periodo di insegnamento a Messina – esorta l’uomo ad accettare con lucida consapevolezza la condizione di creatura mortale, e auspica una nuova solidarietà con gli altri nell’amore come nel dolore. E’ il Pascoli più vicino al pensiero di Leopardi espresso nella Ginestra; ma nel poeta romagnolo manca un’autentica volontà di guardare in faccia il destino, di opporre ai suoi indecifrabili disegni la dignità e l’altezza morale dell’uomo.

Ed Eminescu? E’ nato in una terra e in un contesto religioso, dove la sua inquietudine e le sue angosce potrebbero trovare conforto. La storia del popolo romeno è una storia di adesione ai valori religiosi dell’Ortodossia, considerata da sempre come uno degli elementi di coesione nazionale, di valore intorno al quale costituire o ricostituire una comunità capace di crearsi un destino e una storia. Ma Eminescu è incapace di aderire alla religione dei padri. Eminescu è una di quelle anime che vedono la presenza di Dio nel mondo, ma in senso mistico. “Sono un mistico e non credo in nulla”, diceva Flaubert.

Non c’è il Dio cristiano in Eminescu, e neppure in Leopardi e in Pascoli. Esaminando l’opera poetica di Eminescu pare di entrare in un tempio dove troviamo immagini terrene e atmosfere mistiche e paniche contenute in un orizzonte antropologico, che è il solo entro il quale si svolge il destino delle creature mortali.

Leopardi, Eminescu, Pascoli: tre poeti molto diversi fra di loro, e che tuttavia presentano delle indubbie affinità. Oltre a ciò che è emerso dal confronto delle rispettive produzioni poetiche, possiamo tentare di evidenziare altri tratti che li accomunano. Uno inerisce la prima fase della loro esistenza: è la comune inquietudine, il travaglio interiore che chiede di tramutarsi in azione e che autorizza ad applicare loro un attributo che lo scrittore Antonio Moresco, in un recente articolo per L’Espresso, ha utilizzato in riferimento a Leopardi: insurrezionale.

Insurrezionali sono i tre poeti sin dall’alba della loro vita. Ancora fanciullo, Leopardi si immerge in sette anni (1809-1816) “di studio matto e disperatissimo”. Non c’è dubbio che il futuro poeta fosse divorato dall’amore per lo studio, da un’innata sete di conoscenza. Ma nella ricerca di un’erudizione esclusiva e sterminata, il fanciullo Leopardi vede uno strumento per alimentare i sogni di grandezza, per evadere dalla vita gretta e limitata del “natio borgo selvaggio”. Desiderio che nel 1819, quando il poeta aveva ventun anni, sfocerà nel tentativo (peraltro fallito) di fuggire per sempre dal mondo chiuso e stagnante di Recanati.

Insurrezionale è anche il giovane Pascoli. Poco più che ventenne, stringe amicizia con l’anarco-socialista Andrea Costa, si iscrive all’Internazionale e partecipa ai moti socialisti. A seguito della lettura di una poesia dal titolo Ode a Passannante (l’anarchico che aveva attentato alla vita del re Umberto I), e alla partecipazione ad una protesta contro la condanna di alcuni anarchici, Pascoli fu arrestato nel settembre 1879 e imprigionato per quattro mesi, per poi essere assolto dal Tribunale di Bologna il 22 dicembre dello stesso anno.

Ancor più dei due poeti italiani, insurrezionale è il giovanissimo Eminescu, che vagabonda solitario nelle campagne intorno a Ipoteşti, che fugge due volte dalla scuola, e abbandona il villaggio natale per andare al seguito di alcune compagnie teatrali.

Ma la componente altamente individualistica e insurrezionale si palesa in ulteriori tratti comuni. Sono insurrezionali, i nostri tre poeti, perché innovativi nel linguaggio, tesi al rinnovamento del verso, fabbri della lingua, artefici di nuove forme poetiche, di una parola degna dell’ansia creativa che bruciava in loro.

Insurrezionali perché guardano con spirito critico la condizione di una società che non riescono ad amare, che li delude nelle Istituzioni e nel modo in cui operano. E tuttavia non si isolano da essa: pur portati all’introspezione, alla riflessione nella solitudine, alla contemplazione, non si appartano dal mondo, non cedono all’autoreferenzialità, e continuano a calcare con dignità e operosità le vie dell’insegnamento (Pascoli), dell’impegno politico e giornalistico, (Eminescu), del confronto e del dibattito culturale con alcuni dei maggiori intelletti del proprio tempo (Leopardi).

Insurrezionali perché guardano con ammirato stupore un mondo dominato da meccanismi biologici e sociali che vorrebbero comprendere, senza potervi riuscire; e allora è ai versi che affidano la speranza di una trasfigurazione che passi attraverso l’anima del singolo, la sensibilità di ogni essere umano.

Insurrezionali perché sfidano continuamente le illusioni, l’insensato divenire, il nulla; perché insorgono contro queste forze oscure, facendosi latori di un messaggio che uno di essi, Giacomo Leopardi, ha espresso con parole insuperabili nel Cantico del Gallo Silvestre: “Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in sulla terra, e se ne partono le immagini vane. Sorgete, ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero”.

Armando Santarelli


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