Come parli, uomo? – La Babele delle lingue

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BABELE

La costruzione della Torre di Babele ha combinato un bello scherzetto all’Umanità. Ricordiamo l’episodio della Genesi: trasferitisi nella pianura di Sennaar (cioè in Mesopotamia), gli uomini, che allora parlavano tutti la stessa lingua, decisero di costruire una città intorno a una torre alta fino al cielo.

Volevano ottenere due scopi: diventare famosi ed evitare di spargersi in ogni parte del mondo, come Dio gli aveva comandato.

Il Signore scese per osservare la città, e disapprovando l’atto di superbia degli uomini (D’ora in poi saranno in grado di fare tutto quel che vogliono!) confuse le loro lingue e li disperse su tutta la terra.

Quella città fu chiamata Babele, dall’ebraico bavél, che vuol dire, appunto, confondere, confusione.

Lasciando la mitologia biblica, il Dizionario enciclopedico delle lingue dell’uomo (2007), opera straordinaria del francese Michel Malherbe, stima in circa 3.000 le lingue attualmente in uso nel mondo.

Tuttavia, se consideriamo anche quelle meno importanti, arriviamo ad un numero compreso fra le 6.500 e le 7.000; ebbene, è accertato che esse non rappresentano se non una minima parte degli idiomi creati dal genere umano nel corso della sua storia.

Secondo alcuni scienziati, poiché un linguaggio elaborato non è possibile se non quando l’apparato boccale abbia raggiunto una certa grandezza e conformazione, la comparsa delle lingue risalirebbe a un centinaio di migliaia di anni fa; e tuttavia,

…gli studi dei linguisti non possono andare oltre due-tremila anni fa, perché solo da allora le lingue cominciano ad essere scritte.

L’archeologia linguistica ci permette di affermare, con un certo rammarico, che nessuno saprà mai niente sulle lingue scomparse che non hanno lasciato una scrittura!

Un dato che può sembrare davvero sorprendente è che delle circa 3.000 lingue parlate ai nostri giorni non più di 150 sono scritte; di queste, poche conservano vere somiglianze con il loro antenato:

…essenzialmente, il greco, l’ebraico, il cinese e le lingue dell’India settentrionale.

E’ fin troppo evidente che il mondo linguistico come oggi lo conosciamo è stato delineato dalle dinamiche della storia umana.

L’evoluzione di una lingua tiene conto di diversi fattori, ma uno è preponderante rispetto agli altri: essendo un mezzo di comunicazione, la lingua si forma e segue il destino della comunità che la utilizza.

Le lingue di società piccole e incapaci di allargare la propria influenza rimangono patrimonio esclusivo di quelle comunità, e rischiano continuamente di scomparire.

Le lingue di grandi Potenze sono invece destinate a prevalere e a propagarsi.

Gli idiomi che si sono affermati nel mondo, e che gratifichiamo con l’espressione “lingue di cultura”, non sono quelli più nobili, o più elevati, o più comprensibili, ma quelli parlati da popolazioni capaci di estendere il loro dominio a genti e culture diverse.

E’ stata la forza politica e militare di Roma a fare del latino la lingua dei sudditi dell’Impero; successivamente, il Cristianesimo, trovando una lingua diffusa in tutte le provincie romane, la fece sua e ne assicurò la continuità, perlomeno negli strati più colti della popolazione.

Per opposti motivi, lingue importanti storicamente e culturalmente, come il fenicio, l’antico egizio, l’ittita, l’etrusco, sono scomparse insieme a migliaia di altre.

Per quanto riguarda le lingue meno diffuse, viene alla luce un altro dato interessante: alcune – come l’islandese, il basco, il bretone, il corso – anche se utilizzate da meno di un milione di individui, hanno una forte possibilità di sopravvivenza, grazie al vigore della cultura che le sostiene e alla forte identità dei popoli che le utilizzano.

Analogamente, l’eschimese, lingua poco parlata ma isolata geograficamente, ha più possibilità di sopravvivenza rispetto ad alcune lingue indonesiane parlate da milioni di persone, ma sottoposte alla pressione della lingua nazionale.

Nonostante la varietà e la complessità degli idiomi umani, la storia e la necessità si sono incaricate di abbattere le barriere linguistiche, facilitando i rapporti fra i gruppi sociali.

Ma qui bisogna fare una precisazione importante: mentre la gente comune, alle prese con i bisogni quotidiani, livellava le difficoltà, le persone erudite – scrittori in primis –  complicavano nuovamente le cose, creando neologismi, istituendo regole grammaticali, inserendo nella lingua vocaboli di altri idiomi.

Una complicazione positiva, comunque, perché senza Dante Alighieri, vero fabbro della lingua italiana, saremmo privi di centinaia di vocaboli che ancor oggi formano parte integrante della nostra conversazione.

E’ in questa continua oscillazione fra livellamento e ampliamento, fra semplificazione e arricchimento, che le lingue hanno avuto una perenne evoluzione, sino alla situazione che troviamo ai nostri giorni.

Alla luce di dati recenti, oggi le lingue più parlate al mondo – considerando il loro utilizzo sia come lingua madre sia come seconda lingua – sono le seguenti:

  • il cinese di Pechino, o mandarino, o putong hua, parlato da circa 1.2000.000 persone;
  • l’inglese, parlato da circa 1.100.000 persone (in questo caso, è maggiore il numero di quelli che lo utilizzano come seconda lingua);
  • l’hindi-urdu, parlato da circa 615 milioni di persone. L’hindi è la lingua ufficiale dell’India, l’urdu è la lingua ufficiale del Pakistan, ma anche di numerosi Stati dell’India;
  • lo spagnolo, parlato da circa 480 milioni di persone;
  • l’arabo, attualmente parlato da 285 milioni di persone.

Per quanto riguarda invece l’internazionalità, è all’inglese che spetta il primo posto, essendo la lingua ufficiale di 47 Nazioni del Pianeta, che vanno dalla Gran Bretagna alle Isole Figi, dalla Nigeria a Singapore, dall’Australia alla Guyana.

Il francese è parlato ufficialmente in 31 Paesi del mondo, l’arabo in 21, lo spagnolo in 20, il portoghese in 8.

Come è noto, le lingue del mondo sono classificate in gruppi linguistici; gli idiomi ricompresi in ciascun gruppo hanno in comune analogie di vocabolario, di grammatica e di fonetica, oltre a una parentela storica accertata.

Tutti sappiamo che l’italiano fa parte della famiglia delle lingue indoeuropee, così denominate perché diffuse in un’area estesa dall’India all’Europa, gruppo che oggi conta 200 lingue parlate da circa 3.500.000 persone.

Certo, può stupire che questo gruppo annoveri idiomi che non sembrano apparentati, tanto appaiono diversi.

Infatti, esso comprende le lingue neolatine, quelle germaniche, quelle slave e il greco, ma anche il singalese, il persiano, l’armeno e le lingue dell’India settentrionale.

La maggioranza degli studiosi ritiene che tutte queste lingue derivino da un idioma originario, parlato da un popolo vissuto fra il V e il II millennio a.C.

Purtroppo, di questa lingua non sono rimaste tracce scritte; quel che ne sappiamo deriva dallo sforzo dei linguisti, che cercano di ricostruire l’indoeuropeo primitivo partendo dalle lingue che ne sono derivate.

Una seconda famiglia è quella asiatica delle lingue sino-thai, comprendente idiomi che, come il cinese, il thai della Thailandia, il lao del Laos, il vietnamita, hanno un sistema fonetico particolare, perché sono i toni ad avere una particolare importanza.

Questo gruppo, di cui fanno parte anche le lingue tibeto-birmane, comprende circa 2.300.000 di individui.

Il terzo gruppo linguistico è quello ugro-finnico-uralo-altaico, che comprende l’ungherese, il finlandese e le lingue turche.

Molti linguisti inseriscono in questo gruppo anche il giapponese e il coreano, per un totale di circa 300 milioni di parlanti.

Il quarto gruppo è quello detto maleo-polinesiano, che comprende le numerose lingue dell’Indonesia e della Malaysia, il filippino, il malgascio e le lingue polinesiane, per un totale di circa 350 milioni di individui.

Il quinto gruppo, quello semita-camitico, comprende l’arabo e l’ebraico, le lingue berbere, quelle della maggior parte dell’Etiopia e il somalo, e annovera circa 350 milioni di parlanti.

Il sesto gruppo è quello dravidico, con 300 milioni di parlanti, e comprende le lingue dell’India meridionale, come il tamil e il malayalam, ufficiali in diversi Stati dell’Unione Indiana.

Il settimo gruppo è costituito dalle numerosissime lingue africane (gli specialisti ne enumerano circa 1250), per esempio…

…le lingue bantu, parlate a sud di una linea che va dal Camerun al Kenya, quelle del Corno d’Africa (somalo e amarico), le lingue mande (come il bambara, parlato nel Mali), le lingue del Golfo di Guinea, lo haussa (parlato nella Nigeria e nel Niger).

Le più importanti lingue bantu sono lo swahili, parlato nella Tanzania, nel Kenya e nella Repubblica Democratica del Congo (che però ha il francese come lingua ufficiale), il kirundi, parlato nel Ruanda e nel Burundi, il luganda, lingua principale (ma non ufficiale) dell’Uganda. Questo gruppo comprende circa 400 milioni di persone.

Abbiamo infine le lingue dei nativi americani, che hanno analogie marcate con quelle ugro finniche, fatto che non deve stupire perché è noto che il popolamento delle Americhe è avvenuto in gran parte con l’attraversamento dello stretto di Bering di genti provenienti dal nord Europa e nord Asia.

In questo gruppo le lingue più importanti sono quelle algonchine, quelle sioux e il navaho, e più a sud il gruppo maya (parlato a cavallo fra il Messico e il Guatemala), il quechua del Perù e il guaranì del Paraguay e di alcune aree del Rio delle Amazzoni.

Insieme ad altre lingue di difficile classificazione, come quella papua e quelle aborigene dell’Australia, questo gruppo raggiunge i 300 milioni di individui.

Ma come si forma una lingua? Questo è forse l’interrogativo più affascinante della linguistica.

Purtroppo, è assodato che non sapremo mai come sono nate gran parte delle parole che usiamo.

La parola uomo, per esempio: perché i greci usano il sostantivo antropos, mentre in aramaico è zalama, in lingua haussa (importante in Africa) mutum, in hindi purush, in russo cheloviek?

Quel che possiamo immaginare è che circa centomila anni fa gli uomini primitivi abbiano iniziato ad articolare alcuni suoni onomatopeici elementari; per esempio “hop” per un qualcosa che salta, l’esclamazione “ahi!” per un dolore improvviso.

La parola più usata al mondo, mamma, ci fa ipotizzare che riproduca il suono della suzione del latte da parte del bambino.

In effetti, la radice ma della parola madre si ritrova in moltissime lingue: è madar in persiano, mater in latino, mātā in hindi, mama in swahili, ma in bengali, mata in singalese, mat’ in russo, mŭ qīn in cinese, mama in quechua, em in ebraico, oumm in arabo.

Oltre questo è difficile andare, perché la lingua non costituisce un adeguamento alla natura, come pensava Platone; la lingua è una convenzione sociale, che nasce e si evolve in funzione delle necessità di chi se ne serve.

Il grande linguista Ferdinand de Saussure (1857-1913) ha definito una volta per tutte l’essenza del linguaggio, con la formula “il segno (l’espressione di un concetto) è arbitrario”.

Tornando alla famiglia linguistica cui apparteniamo, viene spontaneo domandarsi come mai il gruppo indoeuropeo abbia avuto la straordinaria espansione che lo contraddistingue.

Alcuni studiosi sostengono che il fenomeno sia avvenuto attraverso conquiste militari, ovvero tramite un popolo guerriero che nei millenni avrebbe occupato tutto lo spazio indoeuropeo.

Un’altra ipotesi è stata avanzata dall’archeologo inglese Colin Renfrew: la diffusione delle lingue indoeuropee si sarebbe verificata a seguito dell’espansione dell’agricoltura, che più della caccia è capace di sostentare popolazioni numerose.

Secondo tale ipotesi, la prima importante agricoltura indoeuropea sarebbe comparsa in Anatolia a partire dal 6.000 a.C.; accompagnata dalla lingua, questa forma di sussistenza avrebbe raggiunto l’Atlantico a partire dal 3.000 a.C.

In ogni caso, gli studiosi concordano sul fatto che è tra il V e il II millennio a.C. è esistito un popolo che ha avuto una civiltà e una lingua comune, che poi, con l’espansione e la diversificazione culturale, si è trasformata e ha dato origine a società e lingue diverse.

Come riporta la grecista Andrea Marcolongo in “La lingua geniale”, è esistito un periodo in cui il greco non possedeva la parola per indicare il mare.

Quando un gruppo del vasto popolo indoeuropeo scese nell’antica Ellade e conobbe il Mediterraneo, dovette inventare nomi nuovi, perché nuova diventava la loro cultura nel mutato contesto ambientale.

Così, dall’assenza di un sostantivo indicante il mare, i greci passarono ai diversi nomi usati per designarlo: als, pontos, pelagos, thalassa.

E’ sempre Marcolongo ad illustrare un significativo esempio del legame fra le parole e la necessità che le fa nascere.

Quasi sicuramente la lingua indoeuropea originaria possedeva un termine preciso per indicare la betulla, tipico albero dei climi freddi del nord Europa, dove il popolo indoeuropeo aveva cominciato ad espandersi.

In effetti, ritroviamo la radice della parola (bir, ber) in diverse lingue: in sanscrito (bhurjah), in russo (bereza) in tedesco (birke), nella lingua svedese (bjork), in inglese (birch), in serbo e altre lingue slave (breza).

Non essendoci betulle in Grecia, il popolo che si insediò nell’Ellade dimenticò il termine, e per millenni la lingua greca rimase priva di un nome indicante la betulla.

Esigenze culturali hanno poi fatto sì che la parola sia comparsa, ed ora il greco moderno indica la betulla col termine simyda, lontanissimo, come si può notare, dalla radice indoeuropea originaria.

Incredibile è la doppia evoluzione della parola indoeuropea orbhos, che indicava il bambino orfano dei genitori.

In latino classico, il termine prese il significato più ampio di “privato di” (orbus) e nel latino popolare quello di cieco.

Inoltre, poiché nelle società antiche l’orfano veniva destinato ai lavori domestici più pesanti, la parola venne collegata al lavoro; recepita dal tedesco, è diventata arbeit, e nelle lingue slave rabota, da cui è derivata la parola robot!

Addirittura straordinario è il cammino percorso dalla parola indoeuropea dhelu, come apprendiamo dal linguista storico Xavier Dalamarre in Le vocabulaire indo-européen, opera del 1984.

La radice indoeuropea dhelu significa “femmina”, nel senso di “colei che allatta”. Il termine passa nella lingua greca, dove θῆλυς (thélys) significa “femmina” e θηλή (thelé) significa “mammella”, e poi nella lingua latina con l’antica forma thelix.

Questa diventa poi felix, nel senso di “fertile” (significato che poi si è evoluto in “abbondante, ricco, felice”). Inoltre la stessa radice dhelu ha dato origine, sempre in latino, a thelius/thilius che poi è diventato filius (“figlio”, nel senso originario di “colui che viene allattato”).

Infinite altre sono le curiosità che ci riservano la linguistica e la glottologia. In questa sede, ci limitiamo a qualche straordinario esempio.

Iniziando dalle lingue semitiche, sappiamo che si sono succedute e sovrapposte fra la Mesopotamia e il Mediterraneo orientale.

La più antica è l’accadico, lingua comparsa nel terzo millennio a.C. e che prese il posto del sumero, che però non era una lingua semitica! Una lingua semitica di particolare importanza è l’aramaico, perché è ormai assodato che fosse la lingua di Gesù.

Ebbene, l’aramaico, subentrato all’accadico nell’VIII secolo a.C. non è affatto una lingua morta, anche se nell’area di origine, la Mezzaluna fertile, venne soppiantato dall’arabo nell’VIII secolo dopo Cristo.

L’aramaico si è evoluto nel corso del tempo, ma è sopravvissuto sino ai nostri giorni; lingua delle comunità cristiane siriache e caldee, è parlata da circa 350.000 persone fra Iraq, Iran, Turchia e Siria.

Ovviamente, ogni comunità etnica o linguistica è attaccata alla propria lingua, e cerca di resistere ai cambiamenti che la investono.

Al di fuori dei casi che hanno comportato la scomparsa di un idioma, la storia registra innumerevoli casi di sconvolgimenti linguistici, alcuni dei quali incredibilmente repentini.

Il caso più clamoroso è quello della regione siberiana di Krasnojarsk, i cui abitanti hanno conosciuto tre lingue nell’arco di soli 50 anni: in origine la lingua samoieda, poi nel 1840 quella turca, che nel 1890 hanno dovuto abbandonare a favore di quella russa!

Molto più amaro il destino delle lingue della Tasmania (la grande isola posta a sud dell’Australia), interamente scomparse a seguito di una feroce politica coloniale di sterminio, un vero genocidio praticato dai coloni bianchi.

Dal 1825 al 1832 i tasmaniani sono stati metodicamente massacrati o trasferiti altrove; l’ultimo tasmaniano, una donna di nome Truganini, morì nel 1877, e con essa le cinque lingue, imparentate fra di loro, che si parlavano nell’isola.

Uguale destino hanno subìto le lingue dei caribici delle Antille e delle popolazioni dell’estremità meridionale dell’America del Sud, la Terra del Fuoco in particolare, scomparse a seguito dello sterminio dei nativi.

Ci sembra opportuno concludere questo breve contributo con un importante e delicato interrogativo: come può delinearsi il futuro delle lingue del mondo?

E’ chiaro che le lingue maggioritarie, supportate dalla cultura scritta e parlata, e dall’invadenza dei social, avranno una diffusione sempre maggiore; è altrettanto vero che la globalizzazione contribuirà a mescolare le lingue in uso nel mondo.

Ricordando che la forza di una lingua è legata strettamente alla forza della comunità che la parla, è facile prevedere che gran parte degli idiomi non scritti sono destinati a scomparire.

Quindi, non dovremmo stupirci se fra un secolo ritrovassimo in Africa e in Indonesia solo poche decine fra le migliaia di lingue parlate attualmente.

La sopravvivenza degli idiomi di società piccole e non influenti potrà essere salvaguardata solo riconoscendo loro un ruolo culturale, quindi dando il giusto valore all’interazione fra queste lingue e la civiltà che esprimono.

    Armando Santarelli


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