PERCHE’ SCRIVI? IL NODO SCIOLTO

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Possiamo decidere di spezzarlo in un solo colpo – come fece Alessandro Magno con quello di Gordio – o cercare di scioglierlo pazientemente. Quello che non possiamo fare è ignorare il nodo che avvolge l’esistenza di noi umani, nessuno escluso. Il nodo è la domanda che continuerà ad assillarci sino a quando, come scrisse Heine, “una manciata di terra ci chiuderà la bocca”: “Perché vivi?”

E’ un interrogativo che rimanda con tutta evidenza al sistema sociale e culturale in cui siamo stati educati. Alcune popolazioni indigene del sud-est asiatico e della Polinesia dipendono dall’approvigionamento quotidiano di pesce, che rappresenta la voce principale della loro alimentazione. Di conseguenza, è plausibile che alla domanda-nodo rispondano più o meno così: “Vivo anzitutto per catturare il pesce che serve a sostentare la mia famiglia.”

Nell’opulento Occidente, le risposte alla domanda-nodo si sciolgono in innumerevoli fili. C’è chi vive per meritare la salvezza eterna, chi per fare soldi, chi per diventare un personaggio famoso, chi per essere d’aiuto all’Umanità sofferente, chi per assecondare una precisa vocazione. Ovviamente, c’è anche chi si accontenta di sbarcare il lunario, apparentemente incurante di qualsiasi ambizione.

L’ambizione è una leva potentissima per indirizzare la risposta alla domanda-nodo in un senso anziché in un altro. Per il filosofo Cioran l’ambizione è un qualcosa di fisiologico: “Ciò che chiamiamo vita è ambizione. L’istinto di conservazione è ancora ambizione, al livello più basso, il più universale. L’ambizione è dappertutto, tranne sui volti dei cadaveri”.

Dunque, secondo Cioran, nessuno sarebbe immune dall’ambizione, neppure quelli che si adagiano nel quieto vivere, neppure le persone che il senso della vita lo trovano in azioni filantropiche. I primi, per esempio, potrebbero essere tentati di riversare sui figli le ambizioni che non hanno avuto, o che non hanno saputo assecondare. Quanto alla filantropia, secondo alcuni filosofi è anch’essa ambizione (io faccio la cosa più alta, il bene del prossimo!). Inoltre, chi fa del bene acquisisce automaticamente il rispetto e la considerazione altrui, e anche in questo si può vedere la soddisfazione di un’ambizione. Ma la filantropia ha un ulteriore vantaggio; fare del bene fa bene, perciò il benefattore dell’Umanità riceve un premio già su questa terra, in attesa (per i filantropi che credono) dell’ulteriore maxi-premio nell’Aldilà (somma ambizione).

In ogni caso, non c’è dubbio che le persone impegnate a dare un senso alla loro esistenza siano le più creative e quelle che appaiono (e forse sono) più felici. Mi capita spesso di leggere D, il supplemento allegato ogni sabato al quotidiano la Repubblica. Nelle interviste a noti personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo, uno dei quesiti ricorrenti è: “Si sente felice?”. Bene, sinora non c’è stato uno solo degli intervistati che a questa domanda non abbia risposto in modo convintamente positivo.

Sentirsi creativi equivale a nutrire e dare forza al nostro ego, altrimenti debole e sperduto nell’indifferenza del mondo. Facendo qualcosa di creativo ci sentiamo felici perché constatiamo che, per piccoli che siamo, c’è qualcuno che ci ascolta, e che forse qualcosa di noi si salverà dall’oblio. Naturalmente, non tutti coloro che sono (o si sentono) creativi resteranno nella memoria del mondo. Ma come ebbe a scrivere Robert Louis Stevenson, “il nostro scopo nella vita non è riuscire, ma continuare a fallire nella migliore delle intenzioni”. E’ il noto (e condivisibile) ammonimento a scrivere (ma anche a dipingere, a comporre brani musicali, eccetera) per puro bisogno interiore di esprimersi.

Ma è davvero così? Che cosa muove una persona a dedicarsi per l’intera esistenza al mestiere di scrittore? Nel 1985 il quotidiano francese Libération pose la fatidica domanda “Perché scrivi?” a più di quattrocento letterati, fra i quali diciassette italiani.

Attilio Bertolucci rispose: “Scrivo perché non so far nulla d’altro. Se non lo facessi e non lo avessi mai fatto mi sentirei inutile e sarei probabilmente disperato. La scrittura è dunque un’autoterapia. Era vero quando avevo otto anni e lo è ancora oggi”.

Alberto Moravia, altro scrittore precocissimo, parlò di una specie di assuefazione psicologica. “Lo scrivere ha finito per far parte integrante del mio ritmo biologico. Cerco soprattutto di risolvere dei problemi letterari, cioè tutti i problemi, perché credo che la letteratura sia tutto. Procedo come l’asino della favola che segue la carota sempre pendente davanti al suo naso. Per questo quando mi si domanda perché scrivo rispondo abitualmente: scrivo per sapere perché scrivo”.

Enzo Siciliano rispose così: “Non scrivo per ambizione, ma forse per inventarmi un mondo a me rifiutato dalla vita, quella che avrei voluto vivere e che le paure, la timidezza, la sensibilità fisica mi hanno impedito di godere. Scrivo per trovare questa possibilità di esistere che la vita tende a sopprimere, a divorare, a ridurre in cenere”.

Pietro Chiara confessò: “Sono forse semplicemente pazzo, ma credo di essere nato per scrivere. In realtà non vivo che per la scrittura e vivendo così non mi accorgo che muoio”.

E Giorgio Caproni: “Posso semplicemente dire, alla maniera di Proust, che per me la scrittura è una pratica igienica tale da conservarmi in buona salute. Quando non scrivo soffro…”.

In tempi più recenti, Amélie Nothomb dichiara che la scrittura è come l’amore: “Non l’ho scelto. E’ come quando ci si innamora; sai che non è una buona idea, ma non ci rinunci”.

Mario Vargas Llosa fa discendere tutto dalla lettura, che “trasformò la mia vita in un modo così meraviglioso che la mia vocazione letteraria fu una sorta di traspirazione, di derivazione da quell’enorme felicità datami dalla lettura”.

Valeria Parrella ci informa che scrivere “è la mia sacca di libertà. E’ l’unico momento in cui mi sento veramente libera”.

Risposte affascinanti, apparentemente variegate, ma dalle quali il comune denominatore della vocazione creativa emerge come una vera e propria cifra esistenziale. E’ stato Proust a dire la parola definitiva sull’inevitabile identificazione, per chi scrive, tra vita e letteratura. Il genio francese è convinto che ciascun uomo porti dentro di sé la propria opera, che non è altro se non il grande libro della vita. Il vero scrittore, dunque, non ha bisogno di inventare; deve invece saper interpretare, o meglio decifrare, il libro interiore di segni sconosciuti che giace in lui, sottraendolo così all’oblio, alle contigenze del Tempo, alla morte. E’ la letteratura, quindi, a costituire la vera vita, quella che, finalmente riscoperta e illuminata, diventa la sola vita pienamente vissuta.

Dopo pronunce tanto autorevoli, immagino che il lettore si sentirà appagato, e se vuole può ignorare il modesto contributo che sto per dare, rispondendo anch’io alla domanda: “Perché scrivi?”

Fin dalla prima volta che mi posi questo interrogativo, una risposta si delineò immediatamente nella mia testa. Era un po’ amara, ma sincera, e soprattutto è la stessa che darei ancor oggi. Io scrivo per avere l’illusione di dare un senso alla mia giornata. Non escludo che, scrivendo, io dia effettivamente un senso al mio essere-nel-mondo; ma non ne sono sicuro, perciò preferisco parlare di “illusione”, e di “giornata” anziché di “vita”.

E’ questo che conta, per me: mettermi lì a riempire una pagina, sperando di farlo bene, di trarne qualcosa di buono. Scrivo poche righe al giorno, ma sono sufficienti per sentirmi soddisfatto e vincere la noia. Almeno in questo senso, mi sento uno scrittore anch’io. Perché gli scrittori sono dei drogati, questo è sicuro; stanno male, vanno a ruota se non tirano fuori due righe da una giornata che, per quante cose buone abbia riservato loro, gira sempre intorno a quell’esigenza: scrivere.

Già molto famoso, assurto definitivamente agli onori dell’Olimpo letterario europeo, un vecchio Eugene Ionesco si lamentava istericamente con i colleghi letterati perché non aveva ispirazione, non riusciva più a scrivere come avrebbe voluto. Doveva riempire un vuoto, è chiaro, prendere la sua medicina quotidiana. Come ricordava Bertolucci, scrivere è una terapia; un’ulteriore prova che lo scrittore è un malato.

Ma di che cosa? Di una sensibilità straordinaria? Della presunzione di vedere ciò che altri non vedono? Della volontà di affermare la propria visione del mondo? Della brama di vedersi letto, ascoltato, ammirato? Di tacitare un ego perennemente insoddisfatto?

Tutte queste cose, certamente, e anche altre, che passano però per le stesse azioni, lo stesso magico rituale: puntare la penna su un foglio (oggi mettere la faccia dinanzi a uno schermo e le mani sulla tastiera) e scrivere, scrivere. E’ questa la necessità, il piacere, il dolore, e dunque è questo che conta, consumare l’amplesso quotidiano, soddisfacente nonostante la ripetizione del luogo, dei preliminari, dei gesti in cui si concretizza, creativo perché ci perpetua, ci salva dall’insignificanza, ci avvicina all’Assoluto.

Sono nei pressi di un fiume di montagna, ne ascolto la voce, il brioso, ossessivo, ammaliante mormorio delle acque nell’eterno fluire verso l’abbraccio del mare. Ecco, lo scorrere di un fiume diventa di colpo qualcosa di ineffabilmente bello, estatico, musicale, e soprattutto umano, perché si riflette nell’animo di una creatura capace di leggerlo, interpretarlo e tradurlo in altre immagini, in altre emozioni. Proprie, innanzitutto, e poi dei lettori, che a loro volta interpreteranno l’interprete, in un circolo virtuoso che premia i traduttori migliori. Non è richiesto altro se non questo spontaneo lavoro di empatia con le parole. Con le parole e basta, perché il vero scrittore non scrive per gli altri; il vero scrittore non deve piacere a qualcuno, deve essere qualcuno.

Una stanza silenziosa (ma anche col sottofondo del rumore di un tram) una scrivania, un computer. Fuori c’è il mondo, con le sue bellezze e le sue crudeltà, la sua magnificenza e le sue miserie. Non posso cambiarlo, non posso dargli un senso, posso soltanto tradurne le pene e le gioie in parole, che si materializzano su uno schermo, dinanzi ai miei occhi. E mi pare già di non essere più solo, di avere un interlocutore, che senza parlare mi dice se ho saputo accostarle bene, quelle parole.

Dovremmo provarci tutti, senza pensare al risultato, senza pretese, senza ambizioni. Perché la scrittura ha il suo premio in sé: ci rivela aspetti sconosciuti del mondo, dei nostri simili, di noi stessi, ci fa toccare con mano che creare non è privilegio esclusivo di Dio. Basterebbe questo; ma qualcuno potrebbe fare la meravigliosa scoperta di aver trovato il senso della vita, senza averlo neppure cercato.

Pubblicato su Fili d’aquilone n. 25, gen/mar 2012


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